Accade talvolta che la percezione del mondo che uno vede riflessa nei prezzi obbligazionari sia molto diversa da quella espressa dai mercati azionari. Oggi però la divergenza è più evidente nel prezzo della volatilità che in quello dei benchmark settoriali.
Lo S&P 500 si aggira attorno a un massimo storico, apparentemente indifferente all’aumento dell’inflazione o al Covid. Dal canto loro, i rendimenti dei Treasury US oscillano fra l’1,4 e l’1,7% riflettendo forse una visione più equilibrata del panorama attuale.
Gli indici di volatilità rafforzano l’idea secondo cui i mercati azionari sarebbero ottimisti, mentre su quelli a reddito fisso si respirerebbe un certo nervosismo. Il VIX, che misura la volatilità prevista per lo S&P 500, è vicino al minimo annuale, mentre l’indice MOVE, che rappresenta la volatilità dei rendimenti dei titoli di Stato, ha toccato un record per il 2021 (si veda Grafico 1).

Perché questa divergenza? Almeno per ora i mercati azionari sono concentrati sulla forte crescita economica e su una stagione degli utili del terzo trimestre di gran lunga migliore del previsto. Invece di intaccare i margini di profitto, il rincaro dei costi di produzione e della spesa salariale è stato trasferito piuttosto facilmente ai consumatori. Il rapporto tra prezzi di produzione e prezzi di vendita ha iniziato ad aumentare. A parte l’incremento dei tassi di crescita nominali, l’inflazione spinge in consumatori ad acquistare ora prima che i prezzi salgano ulteriormente.
L’elevato livello di volatilità sul mercato obbligazionario riflette un futuro meno certo per i tassi d’interesse. Le aspettative riguardo a quelli sui fed fund sono state riviste più volte al rialzo, ora che i mercati si aspettano un nuovo ciclo di incremento dei tassi, il cui inizio tuttavia non è affatto chiaro (giugno o settembre 2022). Il tasso previsto alla fine del ciclo è oscillato di circa 100 punti base nel corso dell’anno. Anche l’intervallo della stessa Fed è insolitamente ampio, con una stima per il 2024 che va dallo 0,625% al 2,625%.
L’incertezza delle prospettive sui tassi di riferimento riflette a sua volta l’andamento altrettanto incerto dell’inflazione. Non solo l’indice primario dei prezzi al consumo (CPI) ha superato le stime di consenso otto volte quest’anno, ma anche il numero di sorprese rispetto allo scorso anno è stato ampiamente superiore alla media.
L’incertezza in fatto di inflazione però non stupisce, visto che sarebbe pressoché impossibile pronosticare l’impatto di migliaia di miliardi di stimoli fiscali su un’economia rimasta chiusa per svariati mesi. Inoltre, la pandemia ha causato profondi cambiamenti nel comportamento dei lavoratori, aggiungendo altra incertezza sul fronte dell’occupazione.
Il rischio per le azioni proviene da un’ulteriore impennata del tasso d’inflazione, da aspettative inflazionistiche a medio termine che salgono oltre le medie di lungo periodo e dalla pressione esercitata sulla Fed per accelerare il suo programma di tapering e intervenire sui tassi d’interesse prima e in misura più massiccia di quanto attualmente auspicato.
Una lezione di storia
Nonostante la portata senza precedenti della pandemia e delle reazioni dei governi, abbiamo cercato situazioni analoghe nella storia per provare ad anticipare gli eventi futuri.
Secondo un post sul blog del Council of Economic Advisers degli Stati Uniti, il periodo di confronto più indicato in tal senso non sarebbe tanto il ciclo inflazionistico degli anni ‘70 quanto quello del 1946-48, visto che anche il dopoguerra è stato caratterizzato da una carenza di offerta che si è scontrata con il rilancio di una domanda repressa. All’epoca però l’inflazione era stata transitoria e, dopo aver raggiunto un picco di quasi il 20% nel marzo 1947, già a maggio del ‘49 il tasso CPI era tornato in territorio negativo. In realtà, come spiega Paul Krugman, è stata la reazione della Fed all’aumento dell’inflazione a provocare una recessione.
Come si sono comportate le azioni statunitensi in quel periodo? In generale gli investitori considerano le azioni una delle migliori forme di copertura contro l’inflazione. E quest’anno non ha fatto eccezione. Da quanto il CPI statunitense è salito oltre il 2% a marzo, lo S&P 500 ha guadagnato il 23%. Diversa è stata invece l’esperienza del 1946-48.
A gennaio del ‘46, per frenare le speculazioni di borsa, le autorità normative hanno aumentato i requisiti di margine dal 75 al 100%. Per rispettare la nuova soglia, molti investitori sono stati costretti a vendere le loro azioni, il che ha provocato una contrazione del mercato di oltre il 20% (si veda Grafico 2). [1]

Quando l’inflazione è ridiscesa al 3%, lo S&P 500 superava del 9% il minimo raggiunto a febbraio del 1948, ma era comunque del 21% sotto il picco toccato a maggio del ‘46. Il settore più resiliente è stato quello energetico, calato solo del 2% da maggio del 1946 a febbraio del 1948, seguito a ruota dal segmento tecnologico (all’epoca composto da hardware per computer). In coda figuravano invece sanità e industria.
Quest’anno i settori migliori sono stati immobili, IT e beni di consumo voluttuari, mentre beni di consumo di base e utility hanno faticato. Pertanto, anche se lo scenario d’inflazione assomiglia a quello di fine anni ‘40, i mercati hanno una bella lezione da imparare.
[1] The 8 Worst Market Crashes of the Last Century
