I mercati finanziari hanno iniziato il 2023 con una marcia in più. I dati sull’inflazione negli Stati Uniti sono stati interpretati positivamente. I rendimenti obbligazionari sono scesi e le azioni sono salite. L’attenzione si sta spostando dall’inflazione alla crescita economica, con la speranza di un atterraggio più morbido del previsto. A nostro avviso, però, la scomparsa delle pressioni inflazionistiche dall’economia statunitense non sarà così scontata come molti prevedono.
La BoJ confonde i mercati
Nella riunione del 18 gennaio, la Bank of Japan (BoJ) ha resistito alle pressioni del mercato, lasciando invariate le misure di controllo della curva dei rendimenti, indebolendo lo yen e facendo salire le valutazioni dei titoli giapponesi – un pilastro fondamentale della sua politica monetaria ultra-accomodante.
In molti avevano fatto leva sulla Banca centrale giapponese perché ponesse fine all’esperimento ormai ventennale di massiccio allentamento monetario. Questa settimana, però, il governatore Kuroda ha ribadito che il controllo dei rendimenti è un meccanismo sostenibile. La decisione segue settimane di turbolenze sul mercato dei titoli di Stato giapponesi, durante le quali i rendimenti si sono impennati.
Nell’ultimo mese la BoJ ha investito l’equivalente di circa il 6% del prodotto interno lordo giapponese nell’acquisto di obbligazioni per cercare di mantenere i rendimenti all’interno dell’intervallo target. La decisione di questa settimana di non modificare la politica o la forward guidance prolungherà probabilmente questo tira e molla con il mercato.
A dicembre, la BoJ ha deciso inaspettatamente di consentire un aumento del target di rendimento del debito pubblico a 10 anni, permettendo ai rendimenti di fluttuare dello 0,5% al di sopra o al di sotto dello zero. Questa mossa ha sollevato la prospettiva di una svolta storica da parte dell’ultima delle banche centrali del G3 che ancora aderisce a un regime monetario ultra-allentato. L’abolizione del tetto ai rendimenti farebbe infatti salire i tassi d’interesse, almeno per il debito pubblico a lungo termine. Contro ogni aspettativa, però, la BoJ non ha apportato ulteriori modifiche alla politica di controllo della curva, rimanendo fedele al range stabilito a dicembre.
Il governatore Kuroda, che si dimetterà ad aprile dopo un record di 10 anni alla guida della BoJ, ha dichiarato il mese scorso che le modifiche ai limiti del meccanismo di controllo erano volte a migliorare il funzionamento del mercato obbligazionario e non erano una “strategia di uscita”. Dalla riunione politica del 20 dicembre, i rendimenti dei titoli di Stato a 10 anni hanno continuato a salire, superando lo 0,5%. Di conseguenza, i mercati hanno fatto appello alla banca centrale perché abbandonasse del tutto il target di rendimento.
Considerati gli esiti dell’ultima riunione della BoJ, il nostro team di investimento multi-asset ha avviato una posizione di sovrappeso sullo yen rispetto all’euro. L’idea di fondo è che il tasso di cambio euro/yen è vicino all’estremità superiore della fascia di negoziazione degli ultimi anni e lo yen è valutato in modo interessante anche a lungo termine. L’euro, invece, sembra essere quotato in base a uno scenario irrealisticamente positivo quest’anno (ad es. forza economica e risoluzione senza problemi della crisi energetica).
Debito pubblico americano vicino al tetto massimo
La scorsa settimana il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen ha avvertito il Congresso del potenziale raggiungimento del tetto del debito il 19 gennaio. Per finanziarsi ed evitare un default tecnico, almeno fino all’inizio di giugno, il Tesoro potrebbe ricorrere alle cosiddette misure straordinarie, che darebbero alla Camera dei Rappresentanti il tempo di negoziare un accordo per aumentare il limite massimo di indebitamento.
Tuttavia, i giochi politici osservati nella recente elezione del presidente della Camera suggeriscono che c’è poca voglia di compromesso. Una volta che le misure straordinarie entreranno in vigore, il Tesoro continuerà a “fare spazio” per emettere Treasury e incrementare il saldo del conto generale all’avvicinarsi della “data X”, rendendo i T-bill ancora più convenienti e restringendo potenzialmente gli spread a breve termine.
L’inflazione statunitense continua a calare
L’inflazione statunitense è scesa a dicembre ai minimi da oltre un anno, a ulteriore dimostrazione che il picco di pressione sui prezzi è passato. Il tasso di aumento dell’indice dei prezzi al consumo (CPI), pubblicato il 12 gennaio, è diminuito per il sesto mese consecutivo, per un aumento annuale del 6,5%.
Pur essendo ancora vicino a un massimo pluridecennale, si è trattato del tasso più basso dall’ottobre 2021, nonché di un calo significativo rispetto al 9,1% raggiunto nel giugno 2022. Dal mese precedente, i prezzi sono scesi dello 0,1%. Il tasso core, che esclude i prezzi volatili di generi alimentari ed energia ed è considerato un indicatore più affidabile della traiettoria dell’inflazione, è aumentato dello 0,3% rispetto al mese precedente, traducendosi in un ritmo annuale del 5,7%.
A nostro avviso, il tasso core scenderà più lentamente di quanto previsto dal mercato a causa della continua forza del mercato del lavoro statunitense, che esercita una certa pressione per l’aumento delle retribuzioni.
Sebbene i dati CPI primari e core siano in linea con le aspettative, i mercati hanno trascurato le sfumature per concentrarsi maggiormente sull’ampia disinflazione generale in atto nei prezzi al consumo.
Considerato il calo dell’inflazione complessiva, il mercato prevede meno di 50 pb di rialzo dei tassi negli USA da qui alla riunione politica di marzo, quando la Federal Reserve potrebbe anche mettere in pausa il ciclo di inasprimento. Con una probabile ulteriore riduzione dei tassi a 25 pb prima della pausa, gli operatori sembrano guardare oltre la fine della stretta monetaria e concentrarsi sulla profondità di una potenziale recessione.
Il nostro team di ricerca macroeconomica è ancora convinto che la Fed aumenterà i tassi di altri 75 pb nel 2023 (50 pb a febbraio e 25 pb a marzo).
Secondo noi il calo dell’inflazione core sarà più lento di quanto attualmente previsto dai mercati. Di conseguenza, riteniamo che la Fed alzerà e poi manterrà i tassi di riferimento oltre il 5% per tutto il 2023, anziché abbassarli, come previsto dai mercati.
Indebolimento dei dati economici negli USA
Nonostante il mercato abbia interpretato in modo più ottimistico le prospettive di inflazione, i risultati delle indagini economiche negli USA si confermano fiacchi. Questa settimana, il sondaggio Philly Fed seguirà quello dell’Empire State, fornendo una prima panoramica sulle condizioni economiche del settore manifatturiero all’inizio dell’anno. Con un -32,9, il sondaggio dell’Empire State Manufacturing ha segnalato una contrazione.
Sui mercati valutari, il 18 gennaio il dollaro ha toccato un minimo in sette mesi, proseguendo l’inversione della tendenza al rialzo che ha dominato gran parte del 2022. Si tratta di uno dei più ripidi crolli del biglietto verde dalla crisi finanziaria globale. La svalutazione di questa settimana è ascrivibile ai dati sulle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, che hanno evidenziato una contrazione maggiore del previsto a dicembre, pari al -1,1% su base annua.
Inoltre, i dati sulla produzione industriale potrebbero offuscare ulteriormente le già deboli prospettive del settore. Secondo le previsioni, infatti, la produzione industriale è scesa per il terzo mese consecutivo a dicembre, andando a confermare i segnali di peggioramento dello scenario, tra cui i dati deludenti dell’Institute of Supply Managers (ISM) e il calo delle ore lavorate nel settore manifatturiero riferito nel recente rapporto sull’occupazione.
Qualche spiraglio di luce
Malgrado queste premesse, i mercati hanno continuato a dimostrare una certa propensione al rischio. Il clima è migliorato dopo le operazioni di short covering, con il posizionamento netto sui futures sceso sotto la metà dei livelli massimi. Il rally è stato in parte determinato da una rivalutazione della propensione al rischio delle banche centrali, in quanto gli investitori sono stati rassicurati dall’ultimo rapporto sull’IPC statunitense. Di conseguenza, i rendimenti obbligazionari sono calati e i settori sensibili alla duration hanno sovraperformato.
Inoltre, i titoli azionari europei hanno superato le controparti statunitensi, poiché gli investitori prevedono che prezzi energetici più bassi e la riapertura della Cina attenueranno il rallentamento economico globale previsto per quest’anno.
I verbali della riunione politica della BCE di dicembre saranno al centro dell’attenzione questa settimana. I toni del vertice sono stati piuttosto aggressivi, sebbene i responsabili politici abbiano concordato una riduzione del ciclo di inasprimento a 50 pb, che dovrebbe trovare riscontro anche nei verbali. La dichiarazione resa in quell’occasione (“I tassi d’interesse dovranno aumentare ancora in modo significativo e a un ritmo costante”) lasciava chiaramente intendere un ulteriore incremento dei tassi.
Il nostro team di ricerca macroeconomica continua a prevedere un tasso terminale del 3,50%, a fronte del 3,3% stimato dal mercato (in calo di 15 pb dall’inizio dell’anno). Un aspetto fondamentale dei verbali che i mercati osserveranno è fino a che punto la BCE terrà fede o meno alla sua retorica aggressiva e alle sfumature nella discussione e che peso avrà l’inflazione in tal senso.
Disclaimer
