L’inflazione in Europa e negli Stati Uniti ha continuato ad attenuarsi, mentre la Cina ha abbandonato la sua politica zero Covid riaprendo l’economia nazionale. Tuttavia, questi sviluppi non riducono il rischio di stagflazione per i mercati sviluppati nel breve periodo. Da un lato, infatti, le banche centrali sembrano intenzionate a proseguire la loro stretta monetaria. Dall’altro lato, la ripresa prevista per la Cina non sarà probabilmente sufficiente a risollevare la crescita globale dalla stagnazione.
L’inflazione cala, ma non abbastanza
Sebbene l’inflazione nella maggior parte delle principali economie abbia continuato ad attenuarsi, è ancora molto al di sopra dei target fissati dalle banche centrali (si veda Grafico 1). Anche i mercati del lavoro sono rimasti troppo tesi perché le banche centrali possano allentare la presa.
Un inverno finora relativamente mite in Europa ha in qualche modo ridotto le preoccupazioni del mercato per una crisi energetica che avrebbe fatto (ulteriormente) lievitare l’inflazione e spinto la BCE a inasprire (ulteriormente) la sua politica monetaria, rischiando potenzialmente di annullare anche la minima crescita del PIL. Tuttavia, se è vero che il tasso d’inflazione primaria è sceso al 9,2% su base annua a dicembre dopo aver superato il 10% a novembre, l’inflazione core dell’Europa è salita al 5,2% su base annua dal 5,0%.
A causa delle tensioni geopolitiche, l’accesso dei paesi europei all’energia resta limitato, il che significa che i rischi di ribasso per l’economia permangono. Inoltre, la BCE ha avvertito che una lieve recessione potrebbe non bastare a contenere le pressioni inflazionistiche. Se l’economia dell’Eurozona dovesse dimostrarsi solida quest’inverno, la BCE potrebbe sentirsi costretta ad aumentare ancora i tassi.
Analogamente, negli Stati Uniti, l’inflazione dei prezzi al consumo è calata dal massimo storico di oltre il 9% su base annua dello scorso giugno, ma il tasso core resta elevato. Le dinamiche dell’inflazione e del mercato del lavoro sono determinanti per stabilire di quanto e per quanto tempo la Federal Reserve (Fed) statunitense potrà inasprire i tassi.
Gli ultimi dati sull’occupazione negli Stati Uniti non hanno fornito indicazioni chiare su quale potrebbe essere la prossima decisione della Fed. Sia il rapporto ADP (Automatic Data Processing) sui posti di lavoro privati che quello ufficiale sugli impieghi non agricoli di dicembre hanno mostrato una crescita superiore alle aspettative. L’aumento della retribuzione oraria media, seppur in calo da un massimo del 5,6% a marzo 2022, resta comunque al 4,6% su base annua – incompatibile con la volontà della Fed di raggiungere un target d’inflazione del 2%.
Approccio aggressivo per stabilizzare i prezzi
Nel complesso, la pressione del mercato del lavoro sull’inflazione si è attenuata, ma è ancora troppo elevata perché la Fed decida di abbandonare la sua politica restrittiva. In effetti, il presidente Jerome Powell ha osservato, in occasione di una conferenza della Riksbank in Svezia il 10 gennaio, che la stabilizzazione dei prezzi richiederebbe decisioni difficili che potrebbero risultare politicamente impopolari.
La situazione ci sembra piuttosto chiara: sebbene i tassi d’inflazione stiano scendendo nelle principali economie, sono ancora molto al di sopra dei target ufficiali. Pertanto, il ritmo dell’inasprimento monetario potrà sì rallentare, ma è impensabile che le banche centrali abbiano già smesso di aumentare i tassi.
Per la maggior parte del 2022 abbiamo assistito alla rottura della correlazione negativa tra i prezzi delle azioni e delle obbligazioni, come dimostra la perdita di oltre il 16% di un portafoglio tradizionale ripartito 60:40 su azioni e obbligazioni.
Se il rischio di recessione dovesse aumentare fino a diventare un catalizzatore per un importante movimento di mercato nei prossimi mesi, potremmo assistere a un ritorno della correlazione negativa tra azioni e obbligazioni: in caso di riduzione dei profitti (piuttosto che di aspettative aggressive sui tassi US), gli investitori abbandonerebbero le azioni per rifugiarsi nelle obbligazioni. Staremo a vedere.
La riapertura della Cina
Il recente passaggio della Cina a una politica di “convivenza con il Covid” e la riapertura dell’economia nazionale suggeriscono che d’ora in avanti il paese causerà meno disagi per le catene di approvvigionamento globali. Se la Cina riuscirà a sbloccare la propria economia, i consumi dovrebbero riprendersi e incrementare i fattori fiscali e di investimento per spingere la crescita annua del 2023 oltre il 5%.
In effetti, proprio in base a tali aspettative, all’inizio di questa settimana il nostro team di ricerca ha innalzato le previsioni di crescita del PIL cinese al 5,5% a/a per il 2023 dal precedente 4,8%. Anche l’inversione di rotta nella politica ufficiale di concessione dei crediti a sostegno del settore immobiliare dovrebbe contribuire a migliorare notevolmente la fiducia dell’opinione pubblica. Il risultato potrebbe essere un rilancio dell’edilizia.
A nostro avviso, questa eventualità sarebbe molto positiva per le materie prime industriali (si veda Grafico 2), anche se la spinta potrebbe rivelarsi solo moderata, poiché la Cina sta mettendo in secondo piano il ruolo del settore immobiliare nella crescita economica. La ripresa del paese si rifletterà molto probabilmente anche sulle altre economie regionali, soprattutto asiatiche, attraverso gli scambi commerciali (il commercio sino-asiatico supera ora quello sino-statunitense).
Difficile evitare una recessione
Ad ogni modo, non ci aspettiamo che la Cina salvi i mercati sviluppati dalla recessione.
Innanzitutto, la Cina rappresenta circa il 20% delle esportazioni totali dell’Asia – una quota inferiore a quella combinata di Europa e Stati Uniti, pari al 25%. Inoltre, il PIL combinato di Stati Uniti ed Eurozona è 1,6 volte quello della Cina. È quindi improbabile che l’aumento della domanda nel paese basti a compensare il rallentamento di queste due economie, figuriamoci dei mercati sviluppati nel complesso.
In secondo luogo, è probabile che la riapertura della Cina si concentri innanzitutto sui settori e sui servizi interni. In tal senso, l’espansione del segmento immobiliare è scivolata in fondo alla lista delle priorità. Entrambi questi aspetti limiteranno le importazioni cinesi di beni di consumo, beni strumentali e materie prime. Infine, non si esclude una sorta di “sfasamento” tra la ripresa cinese, che dovrebbe iniziare nella seconda metà del 2023, e il rallentamento dei mercati sviluppati, che è già iniziato. In tal caso assisteremmo a un disallineamento della crescita cinese e dei mercati sviluppati nella prima metà del 2023.
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