Dopo la pubblicazione dell’ultimo indice dei prezzi al consumo negli Stati Uniti, il 10 novembre, i rendimenti obbligazionari sono scesi e le azioni sono salite. La notizia di un’inflazione più contenuta si è aggiunta ad altri sviluppi positivi, tra cui i piani delle autorità cinesi per allentare le rigide misure anti-Covid. Potrebbe essere l’inizio del tipico rally natalizio o si tratta di un tentativo disperato da parte dei mercati di resistere agli sforzi della banca centrale di inasprire la politica monetaria?
La risposta è piuttosto articolata: se è vero che l’inasprimento della politica monetaria è destinato a proseguire, seppure a un ritmo più lento, è altrettanto vero che anche l’inflazione rallenterà. Per festeggiare però è un po’ presto.
Il picco dell’inflazione
Se negli ultimi mesi l’inflazione registrata ha ripetutamente superato le aspettative del mercato, ora sembra aver raggiunto un picco negli Stati Uniti. Questa percezione trova conferma negli ultimi dati sull’indice dei prezzi alla produzione (PPI) che, proprio come nel caso dell’indice dei prezzi al consumo (CPI), sono risultati inferiori alle attese, anche per le componenti core.
La reazione del mercato obbligazionario statunitense dopo la pubblicazione dell’IPC è stata sorprendente: -25 pb per il rendimento a 2 anni, -30 pb per quello a 5 anni, -28 pb per il rendimento a 10 anni e -22 pb per quello a 30 anni – il tutto in un solo giorno (10 novembre). Da allora, i commenti ufficiali hanno più volte ricordato ai mercati che un dato non fa una tendenza e che i tassi di riferimento della banca centrale devono salire ancora. Tuttavia, i funzionari hanno ammesso che il ritmo dei rialzi potrebbe rallentare.
I responsabili della politica monetaria statunitense sembrano ora concentrarsi maggiormente sullo stato del mercato del lavoro. Il Presidente della Federal Reserve (Fed) di Kansas City, Esther George, ha dichiarato: “Se penso a quanto è teso il mercato del lavoro, non so come potremo continuare a contenere l’inflazione senza un vero e proprio rallentamento, e fors’anche una contrazione, dell’economia”.
All’inizio di novembre, il presidente della Fed Jerome Powell ha sottolineato l’importanza di mantenere la rotta nella lotta all’inflazione “anche se il mercato del lavoro ha rallentato”. Per usare le sue parole: “Direi che [la crescita dei salari] si sta appiattendo a un livello che è ben al di sopra di quello che sarebbe coerente nel tempo con un’inflazione del 2%… Non credo nemmeno che si sia creata una spirale salari-prezzi, ma quando la vedremo, saremo nei guai”.
Non dobbiamo dimenticare che l’allentamento delle condizioni finanziarie dovuto al calo dei rendimenti lungo la curva e all’aumento delle valutazioni azionarie non è esattamente la reazione che la Fed si auspica dall’aumento dei tassi d’interesse. Le aspettative dei mercati di un imminente “pivot” politico, ovvero un’inversione di tendenza in cui la Fed abbandona la sua posizione restrittiva, sono fuori luogo, proprio come l’idea di vincere a braccio di ferro con la banca centrale.
Colombe di ritorno alla BCE?
Paradossalmente, mentre l’inflazione ha continuato ad accelerare nell’Eurozona e parrebbe destinata a proseguire sul medesimo tracciato ancora per un paio di mesi, la Banca Centrale Europea (BCE) sembra pronta a ridimensionare il suo recente approccio “da falco”.
Naturalmente, nessuno parla di un arresto del ciclo di rialzi o, ancor meno, di un taglio dei tassi. Tuttavia, le recenti dichiarazioni hanno creato l’impressione che, una volta portato il tasso di deposito a un livello “neutrale” del 2,00-2,25% – cosa che potrebbe accadere a dicembre – la BCE potrebbe essere meno determinata a procedere con una politica monetaria più restrittiva.
È vero che la recessione in Europa è alle porte, come ha affermato la Commissione Europea nelle sue previsioni economiche d’autunno: “L’economia dell’UE è entrata in una fase molto più difficile” che “porterà la zona euro e la maggior parte degli Stati Membri in recessione nell’ultimo trimestre del 2022”.
Per il momento, le aspettative del mercato in materia di politica monetaria non sembrano tenere conto di questi recenti commenti, anzi gli operatori prevedono che il tasso di deposito della BCE si stabilizzerà al 3,00% a partire dalla prossima primavera. Queste aspettative si sono già tradotte in una leggera inversione della curva dei rendimenti tedesca, con lo spread a 10 e 2 anni sceso da +20 pb a fine ottobre a -10 pb il 15 novembre.
Negli USA invece, sebbene si preveda un rapido aumento dei tassi, è già stato scontato un calo cumulativo di 100 pb per il 2023. Ciò significa che alcuni investitori sperano ancora che la Fed opti per un repentino taglio dei tassi di fronte al rischio di recessione. Ci aspetta quindi un braccio di ferro o si tratta di un “poker di bugiardi”?
In ogni caso, le configurazioni delle curve dei rendimenti ci incoraggiano a creare posizioni che anticipino un irripidimento e a considerare spostamenti tattici della duration nei nostri portafogli a reddito fisso al superamento di determinate soglie.
Notizie migliori dalla Cina
I dati hard hanno confermato la perdita di slancio dell’economia a ottobre. Le vendite al dettaglio sono scese dello 0,7% rispetto a settembre e dello 0,5% su base annua, a causa dei lockdown e dei problemi del settore immobiliare che hanno avuto un impatto negativo sugli acquisti di articoli domestici. Questa debolezza spiega le tempistiche degli annunci da parte di Pechino di piani di allentamento della politica zero Covid e di sostegno al mercato immobiliare.
Il governo ha varato venti misure per allentare la strategia di contenimento del coronavirus, che ha compromesso l’attività negli ultimi anni. La strategia però non è da considerarsi del tutto abbandonata. Pechino aveva già apportato alcuni adeguamenti, soprattutto durante l’estate.
Misure come l’accorciamento dei periodi di quarantena per i contatti stretti dimostrano che il Partito potrebbe ora essere disposto a correre più rischi per stimolare l’economia. Saranno inoltre potenziati gli interventi per accelerare la campagna di vaccinazione. Le variabili da tenere d’occhio restano il numero di casi, di decessi e di ricoveri.
Queste notizie sono valse un bel balzo ai titoli azionari cinesi, con l’indice MSCI China salito del 25% rispetto alla fine di ottobre (al 16 novembre): l’ennesima dimostrazione che gli investitori attendono con ansia la riapertura dell’economia. Al di fuori della Cina, anche i titoli o i settori che potrebbero beneficiare di una tale riapertura hanno sovraperformato.
Effetti sui mercati e sui portafogli
Fino a fine anno e prima delle riunioni sulla politica monetaria della Fed (14 dicembre) e della BCE (15 dicembre), i mercati finanziari saranno attenti a qualunque segnale di cambiamento delle prospettive di inflazione. I prossimi dati macroeconomici finiranno sotto la lente di ingrandimento, alla ricerca di indizi sul futuro corso della politica monetaria nei principali paesi sviluppati.
Nonostante l’ormai ampio consenso su una recessione nel 2023, è possibile che già all’inizio del prossimo anno gli investitori comincino a mettere in discussione questa unanimità, suscitando un certo nervosismo sui mercati. Se da un lato il futuro della strategia “zero Covid” della Cina appare ora più chiaro, dall’altro lato le preoccupazioni geopolitiche in Europa sono purtroppo destinate a proseguire. Ecco perché manteniamo un posizionamento neutrale nell’esposizione azionaria, prediligendo determinate aree geografiche. Nel complesso siamo prudenti riguardo agli asset rischiosi.
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