Dopo un buon inizio, i mercati azionari hanno subito una battuta d’arresto a settembre, in particolare nei paesi emergenti. Le preoccupazioni degli investitori riguardo alla pandemia e all’indebolimento dello slancio di crescita globale sono stati accompagnati dalla notizia di un’imminente riduzione degli acquisti di asset.
Il presente documento è un estratto dell’analisi sull’Asset Allocation Mensile intitolata “Addio stampelle!”
A settembre la questione principale che ha influenzato i rendimenti obbligazionari a lungo termine sia negli Stati Uniti che in Europa è stato l’annuncio delle principali banche centrali di voler gradualmente porre fine alle misure di politica monetaria di emergenza, attuate per proteggere le economie dalle conseguenze della pandemia.
Fra i provvedimenti si annoverano ingenti acquisti di asset: 1.337 miliardi di euro da marzo 2020 a fine agosto 2021 nell’ambito del piano di acquisti per l’emergenza pandemica (PEPP) della BCE e 120 miliardi al mese da marzo 2020 per la Federal Reserve statunitense. Ora il messaggio di entrambe le banche centrali e chiaro: il “tapering” è imminente.
Approcci più aggressivi all’interno della Federal Reserve statunitense
Il tanto atteso vertice sulla politica monetaria della Fed il 22 settembre non ha riservato grandi sorprese, pur sollevando qualche interrogativo. Come previsto, il presidente Jerome Powell ha dichiarato che i criteri necessari per iniziare a ridurre il ritmo di acquisto di asset (tapering) sono stati raggiunti, perlomeno sul fronte dell’inflazione. L’andamento del mercato del lavoro invece è poco chiaro, ma con un calo dal 6,7% a dicembre 2020 (quando sono stati fissati i criteri) al 5,2% di agosto (ultima data di registrazione) la disoccupazione si è sufficientemente avvicinata al “tasso di equilibrio” stimato al 4,0%.
Di conseguenza se il miglioramento congiunturale proseguirà come previsto, al vertice sulla politica del 2-3 novembre la Fed annuncerà ufficialmente l’inizio del tapering che, secondo quanto dichiarato da Powell, terminerà verosimile attorno a metà 2022.
Le stime d’inflazione della Fed per il 2021 sono nettamente aumentate dal 3,0% al 3,7% per il tasso PCE core. La banca centrale prevede ora che il suo metro di misura preferito per l’inflazione core – cioè la spesa al consumo personale, esclusi generi alimentari ed energia – rimarrà leggermente al di sopra del 2% fra il 2022 e il 2024. Powell l’ha definito un “superamento molto modesto” del target del 2% fissato dalla Fed. Tuttavia, il dot plot – che mostra il livello del tasso di riferimento ritenuto “appropriato” dai membri del Federal Open Market Committee – mette in luce una spaccatura all’interno del comitato: sei membri si aspettano infatti un incremento dei tassi il prossimo anno, mentre secondo gli altri nove bisognerà attendere ancora un po’.
Le reazioni iniziali dei mercati finanziari dopo il vertice del 22 settembre suggeriscono che i messaggi del presidente della Fed sono arrivati forti e chiari. Nei giorni successivi è emersa una spaccatura tra i membri del FOMC, non solo riguardo alle tempistiche del primo incremento dei tassi d’interesse, ma a livello più fondamentale sull’interpretazione del quadro di target d’inflazione medio flessibile adottato. Alcuni ritengono che i tassi di riferimento possano rimanere bassi (a circa l’1% nel 2024) a fronte di un’inflazione di poco superiore al 2,0%, mente altri – come il Vicepresidente della Fed Richard Clarida – sono convinti che un grosso passo avanti verso il tasso di più lungo termine avverrà entro il 2024.
Queste visioni divergenti potrebbero in parte spiegare la pressione al rialzo sui rendimenti obbligazionari statunitensi a lungo termine dall’ultimo vertice del FOMC e le rinnovate aspettative del mercato riguardo a un possibile incremento dei tassi di riferimento già il prossimo anno. Inoltre, sebbene il pre-annuncio del tapering sia andato a buon fine, c’è una differenza tra l’essere consapevoli che la Fed ridurrà i suoi acquisti e dover accettare che lo farà molto presto.
Banca Centrale Europea: oltre gli adeguamenti di settembre
Dopo la riunione del Consiglio direttivo il 9 settembre, la Presidente della BCE Christine Lagarde ha dichiarato che “sarà possibile mantenere condizioni di finanziamento favorevoli con un moderato rallentamento degli acquisti netti di asset nell’ambito del programma per l’emergenza pandemica rispetto agli ultimi due trimestri”. Il volume del PEPP si conferma a 1.850 miliardi di euro, mentre il termine del programma è fissato a marzo 2022. La BCE non ha ancora comunicato le sorti del programma né i cambiamenti al piano di acquisto di asset (APP). Gli investitori dovranno quindi attendere il vertice sulla politica di dicembre.
Nel frattempo, come la Fed, anche la BCE rischia di dover fare i conti con la pressione al rialzo sui rendimenti obbligazionari a lungo termine. Nel 4º trimestre la quota mensile di acquisti del PEPP sarà ridotta a 60-70 miliardi di euro dagli 80 del 2º e 3º trimestre. Tuttavia, l’incertezza riguardo agli importi che verranno acquistati dopo marzo 2022 – a fronte di emissioni di titoli di Stato comunque sostenute – sta iniziando a preoccupare gli investitori.
Le ultime settimane sono state caratterizzate dalle dichiarazioni di diversi membri della BCE che intendono prendere le distanze dalle previsioni inflazionistiche pubblicate a settembre, ritenendole troppo basse. In particolare un comunicato stampa ha fatto riferimento a un incontro privato tra alcuni “economisti tedeschi” e il capo economista della BCE Philip Lane, da cui emergerebbe uno scenario interno alla banca che mostrerebbe un ritorno dell’inflazione al 2% dopo il 2023. Sebbene in parte smentita, questa storia ha alimentato l’idea che l’approccio della BCE potrebbe presto farsi più aggressivo.
I mercati obbligazionari sembrano aver finalmente accettato la teoria che la recente accelerazione dell’inflazione sia solo “transitoria”, eppure le discussioni sul tema in seno alle banche centrali sembrano esercitare ulteriori pressioni al rialzo sui rendimenti a lungo termine. Inoltre, sebbene la Fed e la BCE siano prudenti nelle loro comunicazioni ufficiali, altre istituzioni si sono espresse più chiaramente. La Central Bank of Norway, ad esempio, ha recentemente aumentato i tassi di riferimento dallo 0% allo 0,25%, specificando che un ulteriore intervento avverrà a dicembre e che il tasso potrebbe passare all’1,25% entro fine 2022 considerata l’impennata dei prezzi immobiliari negli ultimi mesi. La Bank of England dal canto suo ha dichiarato che i recenti sviluppi rafforzano la necessità di un aumento dei tassi “a medio termine”, motivo per cui gli operatori stanno già scontando svariati incrementi il prossimo anno. Al contempo, diverse banche centrali dei mercati emergenti hanno già iniziato a rivedere al rialzo i tassi di riferimento a dispetto di un’accelerazione dell’inflazione.
Per usare l’espressione di William McChesney Martin, presidente della Fed negli anni ‘50 e ‘60, è arrivato il momento di “togliere la ciotola del punch” anche se gli investitori obbligazionari non sembrano affatto gradire la fine della festa.
Il reflation trade è tornato?
Forse un modo per interpretare gli eventi recenti è pensare che le banche centrali stiano “abbandonando le stampelle” che hanno sostenuto le economie nella loro graduale ripresa dalla crisi del Covid. Tra gli altri, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) hanno già sottolineato come l’eccezionale recessione del 2020 lascerà cicatrici profonde, soprattutto sull’occupazione, che nemmeno un “trattamento d’emergenza” riuscirà a guarire.
Per sanare queste ferite, i governi dovranno implementare misure di politica fiscale strutturali. Tali decisioni dipendono dal calendario legislativo e ci vorrà del tempo perché diano i frutti sperati – più di quanto i mercati finanziari abbiano la pazienza di attendere. Inoltre, sebbene i parlamenti non abbiano esitato ad approvare incentivi una tantum per privati e aziende nel 2020, ulteriori interventi potrebbero rivelarsi più insidiosi e preoccupare di conseguenza gli investitori. Le discussioni al Congresso americano sull’ambizioso piano di spesa infrastrutturale e sulle sostanziali riforme sociali proposti dal Presidente Joe Biden si stanno dimostrando più lunghe e difficili del previsto, anche fra gli stessi Democratici.
Sebbene a inizio anno gli annunci della Casa Bianca riguardo ai suoi programmi su larga scala abbiano alimentato il reflation trade, l’annoso dibattito al Congresso ha in parte offuscato questo tema. Al contempo, gli indicatori economici suggeriscono che il picco della ripresa economica mondiale è ormai passato. Malgrado le strozzature nelle catene di approvvigionamento abbiano limitato la produzione industriale, e i servizi stiano tuttora soffrendo della recrudescenza della pandemia, la domanda si conferma elevata. La risoluzione di questi due problemi dovrebbe innescare una più vigorosa ripresa sia dei servizi che dei settori manifatturieri e imprimere ulteriore slancio alla dinamica espansionistica. Gli investitori però non sembrano concentrarsi tanto su questa prospettiva favorevole, quanto piuttosto sui rischi a breve termine.
Ad aggravare questo nervosismo potrebbe essere l’imminente dibattito sul tetto del debito negli USA, ma una volta superato anche questo ostacolo, il reflation trade potrebbe davvero tornare. Analizzando gli indicatori dell’andamento del mercato emerge come le configurazioni fondamentali di molti asset riflettano già questa prospettiva.
Asset allocation
L’autunno del 2021 rimarrà probabilmente una fase di transizione, il che rende più difficile qualunque proiezione. È stato semplice prevedere la recessione successiva al primo grande lockdown per il Covid e alle conseguenti misure attuate dai governi per incentivare la ripresa dell’attività. La somministrazione a tappeto di vaccini efficaci dovrebbe consentire a molte economie di tornare ai livelli di attività pre-pandemia. I lockdown della primavera 2020 hanno profondamente destabilizzato le dinamiche di domanda e offerta: il forte rilancio della domanda ha innescato difficoltà persistenti sul fronte delle forniture, che mettono sotto pressione i prezzi delle commodity e altri costi di input.
Per reazione le principali banche centrali stanno cautamente soppesando l’idea di “normalizzare” le loro politiche monetarie, a riprova di scenari di espansione congiunturale ragionevolmente ottimisti. I recenti annunci della Fed sembrano spiegare la spinta al rialzo sui rendimenti obbligazionari, che a sua volta ha determinato movimenti piuttosto erratici delle borse a settembre.
Gli investitori devono accettare anche il fatto che i tassi di riferimento e i rendimenti obbligazionari torneranno ad allinearsi con i fondamentali, pur consapevoli che il quadro economico di medio termine resta favorevole alle azioni. L’eliminazione delle strozzature agli approvvigionamenti dovrebbe consentire alle società di soddisfare l’ingente domanda.
La nostra asset allocation riflette queste convinzioni: abbiamo una posizione lunga in azioni e corta in duration obbligazionaria, ma in questa fase di transizione abbiamo comunque ridotto l’esposizione al rischio in queste due asset class a settembre. Questi adeguamenti al posizionamento core e altre modifiche riflettono la nostra visione costruttiva nei confronti degli asset rischiosi.
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